Ventotto anni, dicono, è l’età d’oro per un atleta. È il momento in cui sono più forti, più veloci e al massimo delle loro capacità. Ma questa regola non valeva per Arvid de Kleijn. A 28 anni, viveva ancora a casa con i suoi genitori e non molto tempo prima aveva lasciato il suo lavoro come insegnante di ginnastica part-time. Ispirato dai suoi genitori, entrambi ginnasti, aveva praticato questo sport fino ai 14 anni. “Una volta a settimana insegnavo ai bambini dai 5 ai 12 anni, poi alle signore più grandi, tra i 40 e i 70 anni, facendo con loro piccoli giochi ed esercizi. Era sempre divertente”, sorride il quasi 31enne.
De Kleijn è uno dei "late bloomers" del ciclismo, un talento sbocciato tardi. Ha lasciato la sua cameretta d’infanzia e il club di ginnastica locale, dove lavorava fino al 2020, perché oggi il corridore della Tudor si è affermato come uno degli sprinter più temuti del gruppo, vincitore di una tappa della Parigi-Nizza, della Milano-Torino e di numerose altre corse importanti nelle ultime due stagioni. È convinto che solo il trio composto da Jasper Philipsen, Tim Merlier e Jonathan Milan sia attualmente superiore a lui in termini di velocità e potenziale. “Subito dietro di loro ci sono dieci corridori, e io mi considero uno di loro. Penso di avere la velocità per competere davvero con questi ragazzi, e il mio obiettivo è colmare il divario con quei tre al vertice”, afferma.
De Kleijn non è ancora al top – “il cielo è il limite”, dice parlando delle sue ambizioni – ma arrivare al livello attuale ha richiesto tempo e impegno. “Ho iniziato a correre da junior e dai test che ho fatto sembrava che avessi le capacità fisiche per diventare un professionista, ma militavo in squadre minori, quindi pensavo: ‘Ok, un corridore Conti di terza fascia, forse questo sarà il mio livello’”, racconta a Rouleur il cortese e loquace olandese. “Non avevo un supporto professionale che mi dicesse cosa fare e come farlo – ho dovuto capire molte cose da solo, e c’è voluto del tempo per sapere come allenarmi, cosa mangiare, come comportarmi da professionista.” Inizialmente, studiava part-time all’università per diventare insegnante di educazione fisica, ma nella sua ricerca del sogno e contro ogni pronostico, ha messo in pausa gli studi. “I miei genitori mi vedevano in difficoltà nel conciliare studio e ciclismo, ma io dicevo: devo vedere se posso fare del ciclismo il mio lavoro”.
Il momento decisivo che stava cercando è arrivato proprio alla fine della stagione 2016, nella sua penultima gara da Under 23. “Ho vinto la Parigi-Tours U23 e mi si sono aperti gli occhi. Ho pensato: ‘OK, forse sono davvero forte.’ Fisicamente e mentalmente non ero ancora pronto per essere un vero ciclista di alto livello, ma ho capito di essere super veloce e di poter sprintare con i migliori. Prima non l’avrei mai immaginato”.
Il problema era che, di fatto, quella vittoria non cambiò nulla: le squadre professionistiche continuarono a ignorarlo, nonostante avesse accumulato nove vittorie UCI nelle tre stagioni successive. Semplicemente, sembrava che De Kleijn non rientrasse nei loro piani.
“Quando arrivi a 24 anni senza un contratto, la maggior parte dei ragazzi smette”, riconosce. “Io avevo già una vittoria tra i professionisti a 23 anni e altri buoni risultati, ma nessuno voleva ingaggiarmi. Continuavo a dirmi: fai un altro anno o due, prima o poi una squadra dirà ‘OK, abbiamo bisogno di questo ragazzo.’ Ero certo che le squadre Pro-Conti (seconda divisione) si sarebbero interessate a me, perché vincere a livello pro non è una cosa da tutti”.
Mentre gli sprinter contro cui corre oggi firmavano contratti a sei zeri a 25 anni, De Kleijn faceva i conti coi centesimi. “Essere un corridore Conti non significa avere un grande stipendio”, racconta. “Potevo viverci abbastanza bene, ma sono rimasto a casa con i miei genitori fino a 28 anni e non pagavo affitto. Non guadagnavo molto, quindi dovevo fare così. Stavo investendo su me stesso, organizzando i miei campi di allenamento in Francia”.
Finalmente, pochi mesi prima di compiere 26 anni, arrivò la chiamata che aspettava da tempo: la Riwal Securitas, una squadra pro di seconda divisione danese, lo voleva. “Sono diventato professionista a 25 anni”, sorride. Un anno dopo, nel 2021, passò alla Rally, che in seguito divenne Human Powered Health. “Sono stato il primo europeo che hanno ingaggiato”, racconta parlando della squadra americana. Rimase lì per due anni, finché nel 2023 Fabian Cancellara lo reclutò per guidare il reparto sprint del neonato team Tudor. Da allora, la sua crescita è stata rapida quanto il suo sprint finale.
“Non avrei mai pensato di poter arrivare a questo livello: credevo che al massimo sarei stato un corridore Pro-Conti capace di vincere una o due classiche all’anno, ma ora la storia è diversa”, dice. “Ho vinto alla Parigi-Nizza [lo scorso marzo] e ho pensato: ‘Oh, wow, posso farcela anch’io’. A quel punto inizi a chiederti quale sarà il prossimo passo, come puoi crescere e diventare un altro tipo di corridore. Ho i piedi per terra, ma non voglio impormi limiti”.
Questa stagione, la sua squadra, la Tudor ha investito pesantemente con gli ingaggi di Julian Alaphilippe e Marc Hirschi. Grazie alla presenza di questi due campioni, il team svizzero ha buone probabilità di essere invitato al Giro d’Italia, al Tour de France o a entrambi, offrendo a De Kleijn la possibilità di mostrare la sua potenza sui palcoscenici più prestigiosi. “Se guardiamo agli altri velocisti, in termini di pura velocità sono davvero vicino ai migliori”, afferma. “Negli ultimi cinque anni non ho mai corso un Grande Giro, né molte gare di altissimo livello, quindi voglio vedere cosa posso fare, se posso competere con i più forti. Questo è il prossimo passo. Abbiamo dimostrato di poter fare qualcosa all’UAE Tour [dove l’anno scorso ha chiuso secondo in tre tappe] e abbiamo vinto alla Parigi-Nizza. Penso che prima o poi potrò davvero competere. Il futuro è luminoso, ne sono convinto”.
Se e quando riuscirà a vincere una tappa in un Grande Giro, potrebbe essere il primo ciclista della storia a festeggiare con un salto mortale? “Dovrei arrivare da solo al traguardo per farlo, e questo non succederà mai!” ride. “Potrei farlo qui, a terra, senza problemi al 100%, ma con le scarpe da ciclismo? Hmm, non so. Magari dopo l’arrivo!”.
Il suo percorso per arrivare fin qui è stato tutt’altro che convenzionale, ma non lo cambierebbe per nulla al mondo. “Non ho davvero nessun rimpianto. È stato un viaggio totalmente diverso, ma meraviglioso, una lezione di vita preziosissima. Avere tutto a disposizione per diventare un buon corridore è fantastico e ti permette di crescere velocemente, ma è anche bello riuscire a diventare un professionista self-made, costruendosi da soli. Mi ci sono voluti più anni rispetto agli altri, ma la mia soddisfazione è enorme”.