Un giorno qualsiasi al Tour de France, mattino. La corsa è partita. Mentre il gruppo dei corridori viaggia scortato da qualche centinaio di mezzi a motore, a svariati chilometri di distanza su un altro percorso si sta correndo un’altra gara. È quella in cui il personale a seguito delle squadre, i meccanici, lo staff della corsa, i giornalisti viaggiano in auto, in minibus o su un camion lungo un tragitto parallelo. Quello disegnato per loro e indicato in una guida apposita è un tracciato alternativo per arrivare alla zona di arrivo della tappa successiva, senza incrociare mai i corridori. Nel parcheggio di un’area di servizio lungo il percorso qualcuno ne approfitta per consumare un pranzo decisamente fuori orario. Al seguito di un grande giro si mangia sempre fuori orario, o troppo presto, o troppo tardi. Quasi mai seduti a un tavolo.
È durante momenti di pausa come questo, mentre addenti una baguette molliccia e quando auto delle squadre, pullmini, autobus, camion officina fanno la fila per rifornirsi di gasolio, che l’impatto ambientale delle corse di ciclismo salta agli occhi. Chiunque abbia mai fatto parte della carovana di un grande giro o ne abbia incrociata una non può fare a meno di accorgersi dell’enorme dispiego di mezzi a motore che seguono la corsa. Il Tour de France muove ogni giorno circa 4500 persone, 120 camion per la sola produzione televisiva, una carovana pubblicitaria di 160 veicoli. Le auto al seguito macinano quotidianamente centinaia di chilometri per scortare, anticipare o inseguire i corridori, 218 atleti in tutto che pedalano per circa 3500 chilometri in 21 giorni. Per quanto una persona ami il ciclismo e le corse, è difficile pensare che questo circo ambulante possa continuare ad andare avanti così com’è per molti anni ancora. Serve cambiare.
Uno sport come il ciclismo e noi appassionati di ciclismo, che ci vantiamo di promuovere la bicicletta come il mezzo più sostenibile e green in circolazione, come possiamo tollerare un impatto ambientale del genere? Io francamente mi sento a disagio. Gli organizzatori delle corse, le squadre, l’UCI e persino alcuni membri dei vari governi nazionali stanno cominciando a rendersi conto del problema e ad affrontarlo ma onestamente, a livello personale, mi sento responsabile. La colpa della non sostenibilità del ciclismo - mi chiedo - è soltanto quella degli organizzatori e delle squadre, o è anche quella di noi praticanti, noi che pedaliamo sulle strade e quindi, ancora una volta la mia? Io, sono responsabile di tutto questo? La risposta che mi sono dato è, sì.
Il mondo ha bisogno di un cambiamento, non soltanto di buone intenzioni e di messaggi di speranza. Che cosa posso fare, io, quindi? – provo a chiedermi.
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Domenica mattina, esco in bici. Ho un po’ meno cose da scrivere rispetto al solito e mi ritaglio qualche ora per pedalare vicino a casa. Salgo a Selvino, la mia salita del cuore, quella che ho a pochi chilometri di distanza e che qualche mese fa è stata percorsa dal Giro d’Italia. Sono dieci chilometri e 19 tornanti che percorro decine di volte ogni anno. Mentre pedalo il mio sguardo va a bordo strada dove scorgo, come al solito, una quantità sorprendentemente grande di rifiuti e di incarti di barrette energetiche e gel, senza ombra di dubbio gettati da qualche ciclista. È impressionante constatare quante ce ne sono. Pedalo e cerco di non arrabbiarmi ma il mio pensiero e il mio sguardo ritornano costantemente a queste carte argentate e colorate che non posso non vedere. Ce ne sono una quantità francamente imbarazzante. È vergognoso.
Il ciclismo ha un rapporto speciale con l'ambiente e la natura, o almeno questo è quello che penso io. La bicicletta è un mezzo pulito e silenzioso, rispettoso dell’ambiente. La natura e le strade sono il nostro campo di gioco per cui serve prendersene particolarmente cura. Ho sempre pensato che i ciclisti sono una categoria speciale di sportivi, particolarmente attenti all’ambiente e – almeno ascoltando i discorsi e le critiche, quando in TV si vede un professionista lancia una borraccia nel bosco – particolarmente responsabili. Adesso non lo credo più, già da un po’ ho cambiato idea: molti tra noi ciclisti sono dei cazzoni.
Una volta in cima alla salita, al bar vicino alla fontanella mi procuro un sacchetto dell’immondizia e scendo. Vado giù adagio costeggiando il bordo strada e ogni tanto risalendo dalla parte opposta per andare a setacciare bene ogni tratto. Mi fermo ogni volta che vedo l’incarto di un gel, di una barretta o un prodotto energetico e la raccolgo. Prendo il pezzetto di plastica e lo metto nel mio sacchetto giallo che alla fine della discesa, è pieno. La quantità di rifiuti che ho raccolto è sconvolgente.
Non ho la pretesa di cambiare il mondo limitandomi a sperare che degli idioti in bicicletta che non riescono a rimettere nella tasca della maglia i propri rifiuti, trovino finalmente l’ispirazione per cominciare a farlo. Un ciclista che nel 2023 butta ancora le carte dei suoi gel a bordo strada, è una freccia persa. Serve concentrarsi sulla parte sana della nostra comunità: quelli che l’incarto di un gel a bordo strada non l’hanno mai buttato, quelli che se ne vedono uno lo raccolgono e lo portano via, quelli che se vedono uno che con disinvoltura si libera di una cartaccia durante un giro in bici o una granfondo non perdono l’occasione per farsi sentire, a costo di discutere.
Per cambiare il mondo quello che possiamo fare noi ciclisti nel nostro piccolo, è ripulire. Limitarsi a non sporcare non basta. Limitarsi a sperare che gli organizzatori del Tour o del Giro diventino più responsabili e trasformino il ciclismo in uno sport più sostenibile non è sufficiente. Non è solo colpa loro e dei corridori, ognuno deve fare la sua parte.
Voi, che tipo di ciclista siete?