Ok, devo ammetterlo: le corse di ciclismo dopo il Giro di Svizzera e la scomparsa di Gino Mäder mi hanno dato la nausea e non ne ho più guardate, nemmeno una. So che alcuni di voi - non so se molti o pochi ma certamente un numero per me considerevole di persone - hanno condiviso e condividono questo disagio con me. Da ex-sciatore e alpinista professionista mi sono trovato in vita mia fin troppe volte a confrontarmi con la tragedia della scomparsa di un amico mentre era in azione in montagna. A conti fatti è stata una vera e propria ecatombe quella che ho visto accadermi intorno. Una strage. È stato difficile. Ho incamerato una quantità di dolore difficile perfino da spiegare.
È ogni volta sempre più complicato elaborare la morte di un amico alpinista e trovare la forza per ricominciare. Arrivi a un punto in cui (io perlomeno, ci sono arrivato) la quantità di sofferenza che devi assorbire e neutralizzare per ricominciare ad andare in montagna è talmente grande, che il piacere della azione sportiva viene annullata dal dolore e dal vuoto che sento dentro. Credo che in gruppo, nel ciclismo, quando scompare un’atleta in corsa, succede grossomodo la stessa cosa. È una vera tragedia, anche per chi rimane.
Non so francamente come sia stato possibile per i corridori, per i direttori sportivi, i meccanici, tutte le persone dello staff e della organizzazione continuare a pedalare al Giro di Svizzera (o a guidare un ammiraglia, fare la manutenzione alle bici, montare e smontare le strutture d’arrivo, scattare foto agli atleti, fare la telecronaca, scrivere degli articoli) dopo la tragica scomparsa di Gino. Ognuno ha il proprio modo di elaborare il dolore e di farsi forza ma io - devo ammetterlo - questa volta ho trovato a tratti la retorica del the show must go on insopportabile, incapace di restituirmi la forza di guardare serenamente le gare di ciclismo e in fin dei conti anche di scrivere o parlare. Mi sono chiesto cosa può fermare una gara di ciclismo, a questo punto? È giusto non sospendere la corsa quando accade una tragedia del genere? Non ho saputo darmi una risposta.
Non voglio fare paragoni ovviamente, ognuno reagisce al dolore in modo differente ma devo ammettere che ho provato a pensarmi in azione sulle pareti di una montagna i giorni immediatamente seguenti della scomparsa di un compagno di cordata. Per me è totalmente inconcepibile. Non sono mai stato capace sulle grandi montagne della terra, dopo la morte di un altro alpinista sulla stessa montagna (anche qualcuno che non conoscevo) di continuare la mia scalata. Ho sempre sentito dentro un vuoto profondo e bruciante, e il bisogno di fermarmi. È quello che ho fatto dopo il Giro di Svizzera, in effetti. Da allora non ho scritto più niente.
È stato difficile riconciliarsi con l’idea che le corse continuano, com’è normale che sia. Ad aiutarmi molto sono state le immagini di Sandra Mäder, la madre di Gino che abbraccia i corridori in gruppo il giorno seguente alla tragedia. Sono immagini che mi hanno colpito e che mi hanno fatto bene. Mi hanno aiutato. Quegli abbracci, quella serenità e compostezza della signora Sandra mi hanno fatto molto riflettere. Forse perché anche io sono genitore di tre figli dell’età grossomodo di Gino Mäder. Mi sono chiesto del mio ruolo di genitore e di giornalista. È giusto chiudersi nel silenzio e nel dolore? È utile a mitigare il dolore degli altri? Probabilmente, no.
Ieri è cominciato il Tour del France. È la prima corsa che ho seguito in TV dopo quel giorno maledetto al Giro di Svizzera. A parte la gente e il colore del pubblico dei Paesi Baschi, a parte la potenza stratosferica e la velocità dei corridori in corsa (cose a cui il Tour ci ha abituato); a parte il dispiacere per l’uscita di corsa di Enric Mas e Richard Carapaz già al primo giorno di corsa, sono rimasto molto colpito dall’uno-due dei gemelli Yates: vittoria con Maglia Gialla ad Adam e secondo posto a Simon dopo un allungo coraggioso e spregiudicato nella fase finale della corsa.
È stato bellissimo vedere due fratelli in testa al Tour de France, ho tifato per loro mettendo da parte il dolore dei giorni scorsi. Mi sono immaginato i signori Yates, John e Susan nella loro casa di Bury, vicino a Manchester. Con il desiderio di scriverne e di scoprire qualcosa di interessante sono andato a leggermi la vicenda degli inizi dei due fratelli con il ciclismo, ed è una storia bellissima che un giorno con più calma varrà la pena raccontare.
E anche oggi, nella seconda tappa, mi ha entusiasmato la vittoria di Victor Lafay, non soltanto per come è avvenuta con quella fucilata a un chilometro dal traguardo che ha sorpreso tutti, Wout Van Aert e Jumbo-Visma compresa, ma perché Victor è il classico corridore che non ti aspetti. Ieri era l’unico rimasto agganciato a Tadej Pogačar e Jonas Vingegaard ma nessuno avrebbe puntato su di lui, oggi. E invece.
È un ragazzo già con qualche bella vittoria, oltre a un promettente secondo posto nel Campionato Mondiale U23 del 2018. Anche nel suo caso, perché è molto giovane, mi sono immaginato i suoi genitori. Sono andato a cercare informazioni su di loro, è una buona tecnica giornalistica per trovare spunti interessanti. Ho scoperto che il padre di Victor si chiama Pierre ed è un campione di rally. Ha gareggiato varie volte alla Parigi - Dakar e nel WRC. Mi chiedo come possa saltar fuori, da un appassionato di rally e automobilismo, un figlio appassionato di ciclismo? Non lo so esattamente, comunque io non ho mai tenuto una canna da pesca in mano in vita mia e non so leggere le note musicali, e ho un figlio della stessa età di Victor Lafay che lavora nel mondo della musica e che è un pescatore appassionatissimo. Ieri ha compiuto venticinque anni. La vita da genitore, è meravigliosa e sorprendente.
E anche quella di giornalista. La cosa più interessante di tutte dello scrivere di sport, come sempre, non sono le vittorie ma le persone in cui ti imbatti e le loro storie. Amo il ciclismo perché mi consente di conoscere sempre nuove persone e nuove storie, nuovi punti di vista. In fin dei conti la vita non si ferma mai ed è per quello che dopo le tragedie bisogna trovare la forza di ricominciare anche senza avere avuto risposta alle proprie domande: perché se ti metti in gioco, a volte sono le risposte che trovano te.
Viva il ciclismo, viva il Tour de France.