"Ho voglia di lavorare e di mettermi in gioco." La nuova vita su due ruote di Fabio Aru

"Ho voglia di lavorare e di mettermi in gioco." La nuova vita su due ruote di Fabio Aru

L'ex corridore sardo si racconta a Rouleur, tra nuovi progetti e ricordi passati

Photos: Getty Images; SWpix Words: Nick Busca

All’attacco dei Piani di Tavagnasco — una salita di nove chilometri e più di 1,000 metri di dislivello al confine tra Piemonte e Valle D’Aosta — Fabio Aru ha attaccato il gruppo. Sulle prime rampe al 20% si è alzato sui pedali, ha impresso un ritmo infernale alla corsa e ha fatto il vuoto. E nessuno è più riuscito a riprenderlo. 

Quella mattina, il corridore sardo della Palazzago era quarto nella generale a 1 minuto e 44 secondi dalla maglia gialla di Andrea Manfredi (scomparso nel 2018 a seguito di in un incidente aereo in Indonesia). Per rientrare in lotta nella generale, Aru non aveva alternative. Doveva attaccare a testa bassa.

“È una delle salite più dure che ho fatto,” ricorda Aru. “Me la ricordo bene perché l'ho presa da sotto a tutta, sono arrivato da solo ed è stato bellissimo.”Una della prime gare di Aru da professionista, il 25 agosto 2012 nella USA Pro Challenge a Boulder, Colorado. Foto: Doug Pensinger/Getty Images 

Era il 21 luglio 2012. Era il Giro della Valle d’Aosta, una dura gara per dilettanti alla quale hanno partecipato i più grandi talenti della storia: Pavel Sivakov, Enric Mas, Mark Padun, Laurens De Plus, Davide Formolo, Fausto Masnada, Joe Dombrowski, Thibaut Pinot, Domenico Pozzovivo, Damiano Cunego, Gilberto Simoni, Ivan Gotti. E Fabio Aru appunto.

Con quell’attacco di coraggio ai Piani di Tavagnasco, Aru vinse la terza tappa del Petit Tour con 59 secondi su Manuel Bongiorno e 1:32 su Davide Formolo. Nella generale balzò al comando con 1:44 su Manfredi e 2:43 su Pierre Paolo Penasa. 

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Era la prima volta che vidi Aru gareggiare dal vivo, e lo vidi da una posizione privilegiata, in ammiraglia con il suo DS Locatelli, la cui guida mi fece perdere qualche anno di vita. 

Con quell’accelerazione violenta — su rampe che partono al 20% e poi continuano a strappare nello stesso modo fino ai 1,330 metri dei Piani (che piani non lo sono mai) — capii subito che Fabio Aru, il corridore sardo della Palazzago, era destinato a grandi cose.Fabio Aru sul Colle delle Finestre al Giro 2015. Foto: Pier Maulini/SWPix

Aru aveva già vinto il Giro della Valle d’Aosta nel 2011 — e con quel numero si ripeté nell’edizione del 2012, al termine della quale inflisse 3:25 al russo Sergei Chernetski e 3:50 a Manfredi. E pochi mesi dopo quello show, Aru passò professionista con l’Astana, assieme a un certo Vincenzo Nibali. 

Vedere la nascita della stella Aru tra i dilettanti fu una fortuna immensa — un ricordo che racconto sovente. E quello che ne seguì non fu casuale.

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Aru, in meno di dieci anni da professionista, ha vinto una Vuelta nel 2015, ha chiuso il Giro d’Italia in seconda e terza posizione (2015 e 2014), ha indossato la maglia gialla al Tour de France per due tappe (2017, dove arrivò quinto), ha vinto tappe in tutti i tre grandi giri, e ha anche vinto un titolo italiano (nel 2017 a Ivrea). E ogni volta che vedevo i suoi exploit tra i professionisti, la memoria correva ai Piani di Tavagnasco. 

Tuttavia, nonostante un’ascesa fulminea con l’Astana nella prima parte della sua carriera, Aru ha dovuto affrontare molti momenti duri dopo il 2017. E, a sorpresa — nel momento in cui si stavano vedendo i segnali di un suo ritorno con il secondo posto nella Vuelta a Burgos 2022 dietro a Mikel Landa e di fronte a Padun —, Aru ha spiazzato (quasi) tutti e deciso di ritirarsi. La vuelta 2021 è stata infatti la sua ultima gara da professionista. E, ad oggi, non ha rimpianti.Da campione italiano in carica, Aru riceve la maglia gialla a Peyragudes, al Tour 2017. Foto: Chris Graythen/Getty Images

“Sono convinto che la mia età (31 anni) mi avrebbe permesso di fare ancora 3/4 stagioni ad alto livello,” racconta Aru. “Ma dal momento in cui ha preso quella decisione sono rimasto contento e sicuro che fosse quella giusta e lo sono tuttora. Mi arrabbio un po’ con chi mi dice che sono andato in pensione. Ho finito semplicemente una carriera sportiva e di gare, ma ho voglia di fare e sono impegnato in altre cose.”

Dei vari progetti in cui è impegnato, tuttavia, per questioni contrattuali, Aru rimane ancora ermetico. Ma ci lascia intendere che il suo futuro sarà ancora legato alla bicicletta e in futuro lo rivedremo al fianco di aziende ed eventi. Aggiunge anche che la sua capacità di parlare inglese e spagnolo (e ha da poco iniziato lezioni di francese) lo sta aiutando nella delineare i progetti futuri.

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“Non posso ancora parlarne perché non ho ancora deciso,”racconta Aru. “Ma sto valutando una serie di opportunità e progetti che mi vengono proposti giorno per giorno, ma sto prendendo un po’ di tempo per valutarli bene.”

Quello su cui invece non ha dubbi e su cui si esprime liberamente sono i momenti della sua carriera ciclistica – quelli più belli, e quelli più duri.

“Il momento più bello è stato vincere il campionato italiano,” racconta. “Nonostante le tappe che ho vinto nei grandi giri, il campionato italiano [con arrivo non lontano dai Piani di Tavagnasco] mi ha emozionato tanto e rimane una giornata speciale. Il ritiro al Tour [2020], invece, è stato il momento più negativo, a cui si è aggiunta una perdita familiare due giorni dopo.”La vittoria alla Planche des Belles Filles, sempre in maglia iridata, sempre al Tour 2017. Foto: Photo by Bryn Lennon/Getty Images

Aru aggiunge che proprio in quel momento, in cui stava vivendo un momento personale e professionale durissimo, e dove più aveva bisogno di sostegno, si è sentito abbandonato e affossato. "Ma è stato un insegnamento anche quello,” aggiunge.

Se dovesse tornare indietro, e potesse decidere cosa fare nello stesso modo — e cosa cambiare — Aru dice che manterrebbe la stessa determinazione e precisione nel fare le cose che gli ha permesso di raggiungere grandi risultati. Mentre, se potesse cambiare qualcosa, cercherebbe di essere meno istintivo e “di pelle” nell’affezionarsi ad alcune persone.

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“Certe volte mi sono affezionato a delle persone da cui forse dovevo aspettarmi di meno,” racconta. “Oppure ho pensato troppo a quello che la gente pensava di me in un determinato periodo perché non stavo andando fortissimo in bici.”

Tuttavia, anche queste esperienze negative sono state di formazione. E tutt’oggi, nell’affrontare le sfide del nuovo lavoro, il 31enne originario di San Gavino Monreale continua ad applicare la mentalità e la metodologia da atleta che vuole fare bene il suo mestiere. Non indossa più il completo di una squadra, ma la grinta e la voglia di lavorare duro sono le stesse di quando si allenava e gareggiava.La grinta e le famose espressioni di dolore di Fabio Aru, qui alla Vuelta 2019. Foto: Zac Williams/SWpix.com

“Nonostante abbia finito di fare competizioni di alto livello, il ciclismo mi ha dato dato determinazione e voglia di sacrificarmi,” racconta Aru. “Ho una grandissima voglia di lavorare e di mettermi in gioco in molti progetti. E su alcuni, la bici continuerà ad avere la sua importanza. Quando ero un atleta professionista ero molto preciso e pignolo, lo sono anche nel mio lavoro e lo sarò anche in futuro.” 

E anche se la scorsa settimana qualcuno ha ipotizzato un ritorno di Aru alla carriera professionistica (magari nel duathlon, o nel triathlon), Aru — almeno per il momento – smentisce le voci che si erano susseguite a seguito della fotografia che lo ritrava correre su di un tapis-roulant in una clinica di Zurigo. Tuttavia, la passione per la corsa è concreta e qualche idea per il futuro anche in quell’ambito Aru ce l’ha.

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“Devo dire la verità,” confessa Aru. “Corro a piedi da quando ho finito la Vuelta, Ho iniziato gradualmente — con 5/6 chilometri fino ad arrivare a una ventina. Ovviamente non sempre 20 km, diciamo che la media sono 13/14 a uscita.” 

Ma ci sono state settimane in cui Aru ha anche corso 60 km — e la scelta della corsa è dovuta alla facilità di inserire una sessione di allenamento in mezzo agli impegni professionali.

“Quando torno a casa alle sei non posso ovviamente uscire in bici,” racconta. “Capita qualche volta che faccio un po di rulli, però mi piace anche uscire col buio a fare una corsetta. E mi piace come sport, ma la possibilità che possa fare triathlon il prossimo anno non c’è. Mi piacerebbe, in futuro, partecipare a un triathlon. Ma una cosa futura, che non riguarda il 2022.”Alla Vuelta 2022 in un momento ludico con Richard Carapaz. Foto: Getty Images

La foto nel centro di bio-meccanica di Lugano era dovuta alla volontà di controllare la sua tecnica di corsa e realizzare dei plantari.  “Ne è emerso che tecnicamente ho molto da migliorare,” dice ridendo. “Il fondo c’è, ma la tecnica è da migliorare.”

E almeno per i prossimi cinque anni, aggiunge Aru dalla Sardegna (dove è tornato per le vacanze di Natale), la sua casa rimarrà a Lugano. Dove, già a partire dalla fine della Vuelta, ha potuto godersi il meritato riposo e il tempo libero con la moglie Valentina e la figlia Ginevra.

“Mi piace veramente tanto il fatto che anche se, durante il giorno, sono impegnato in riunioni, o sono via, è una parte marginale,” racconta. “La sera sono quasi sempre a casa e ho molto più tempo per stare con la mia famiglia. Prima, invece, per almeno 230/240 giorni all'anno ero via.”La cronometro di Santiago de Compostela alla Vuelta 2021, l'ultima gara da professionista di Fabio Aru. Foto: Getty Images

Un'ultima domanda mi sorge spontanea. Di quei tanti giorni e gare in bici da ciclista professionista, qual’è stato quello più duro per Fabio Aru?

“Ho sofferto tantissimo nella tappa del Mortirolo [Giro 2015], quando Contador forò in discesa e noi lo attaccammo con l’Astana," racconta. "Poi lui ci riprese, mi staccò e io persi tre minuti.”

E, ovviamente, anche quella tappa ai Piani di Tavagnasco. Dove vidi nascere la stella di Fabio Aru e capii subito che era destinato a grandi cose.

Photos: Getty Images; SWpix Words: Nick Busca


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