Diventare astronauta - la nostra intervista con Lachlan Morton

Diventare astronauta - la nostra intervista con Lachlan Morton

Dopo anni da corridore su strada a livello WorldTour, Lachlan Morton si è spostato nel mondo delle corse gravel e di ultra endurance e così facendo, ha ridefinito l’idea della professione di ciclista professionista.


Estratto dell'intervista pubblicata su Rouleur Italia n. 13

Intervista e fotografie di: James Startt

Prodotto in collaborazione con FIZIK

Ci sono poche vere icone nel mondo di oggi ma se si tratta di ciclismo, Lachlan Morton è innegabilmente una di queste. Dopo anni da corridore su strada a livello WorldTour, Lachlan si è spostato nel mondo delle corse gravel e di ultra endurance e così facendo, ha ridefinito l’idea della professione di ciclista professionista. Inutile dire che siamo rimasto sorpresi nello scoprire che un tè pomeridiano era una delle avventure che Lachlan aveva voglia di vivere a Londra. Dopotutto, durante le sue avventure in bicicletta può passare giorni o settimane senza godere di un raffinato pasto preparato in casa. Lachlan Morton non smette mai di sorprendere. Rilassandosi nella Gatsby's Room del Beaumont, Lachlan ha assaggiato specialità come l'uovo alla diavola e il pollo alla Coronation, ma anche il meno comune Salt Beef Reuben. Alla fine ci sono stati il tè e i dolci. La torta alla crema di Yuzu e la torta Mocha, sono state le sue preferite. 

È interessante vedere come sei diventato una creatura quasi leggendaria, in questo sport. Hai iniziato come professionista su strada ma ora sei diventato uno degli atleti simbolo della scena gravel e ultra. Ovviamente hai un grande motore, hai vinto un sacco di gare importanti, sia da juniores che da giovane. Hai il fisico per essere un professionista della strada, ma hai scelto diversamente...

Credo di non avere la mentalità giusta, sia in senso positivo che negativo. Non riuscivo ad avere la testa per fare le gare del WorldTour. Non ero concentrato. Il livello è così alto e le squadre corrono tutte allo stesso modo. È sostanzialmente un grande test collettivo di forma fisica. Quest’aspetto delle corse su strada non mi ha mai appassionato, va a scapito di molte altre cose a cui io non riuscivo a rinunciare. Non riuscivo ad avere il focus univoco e unidirezionale che è necessario, soprattutto. Ci riuscivo quando ero più giovane, ma poi ho capito che non era salutare per la mia mente. Mi è servito in termini di risultati, per costruirmi organicamente ma non è stato un bene per il resto delle cose della mia vita. Ricordo di aver ottenuto dei risultati e poi la sera stessa di aver pianto sotto la doccia perché alcune cose ancora non mi soddisfacevano, non erano arrivate con il successo tanto atteso. Ho capito che evidentemente c’era qualcosa che mancava. 

È interessante perché ricordo che avevi corso il Giro d'Italia 2020 in autunno, alla ripresa dopo la prima ondata della pandemia, e avevi detto che ti saresti dedicato maggiormente alla strada nel 2021. Poi, non molto tempo dopo, questa netta virata... 

Già nel 2019 la mia squadra ha iniziato a consentirmi di fare più gare al di fuori del tradizionale circuito WorldTour. Mi ero divertito molto, ma allo stesso tempo sentivo di dover continuare a seguire le corse su strada nel caso in cui mi fosse tolta la possibilità del mio calendario alternativo. Il 2020 era stato un anno molto strano a causa della pandemia. Ero l'unico corridore professionista che riusciva comunque a fare qualcosa, tipo il record dell’Everesting o del Kokopelli Trail. Poi, poco prima del Giro d’Italia di quell'anno, ho corso la Badlands. In origine volevo fare un Alt Giro come avevo fatto per il Tour de France del 2021, facendo il percorso da solo, in autonomia e anticipando le tappe. All'ultimo minuto però ero stato inserito nella squadra per il Giro e così avevo dovuto cambiare programma. Fisicamente una corsa a tappe di tre settimane è molto diversa da una gara come Badlands e non ero davvero a posto. Potevo aiutare un po' i miei compagni di squadra, ma non mi sono mai sentito veramente in gara. Quell'inverno ho ricominciato a lavorare con un allenatore, per la prima volta dopo tre anni e ho cercato di prepararmi al meglio per la stagione su strada 2021. Ma quando la stagione è iniziata, ho capito che non ce la facevo più, che non potevo più farlo. Fortunatamente Jonathan Vaughters ha capito, e allo stesso tempo ha visto il mio potenziale in un altro tipo di ciclismo. Per questo motivo ho molta stima e rispetto per JV.  

Non molti ciclisti sono usciti dalla pandemia brillantemente come te. Ti sei reinventato e in qualche modo hai anche contribuito a reinventare lo sport del ciclismo, durante quel periodo così strano.

Le cose stavano cominciando a funzionare bene già prima del Covid, con l'esplosione del fenomeno gravel e tutto il resto. La pandemia è stata per chiunque di noi un buon momento per riconsiderare gli obiettivi e i metodi per misurare il successo sportivo. Fino a quel momento la mia misura del successo sportivo era sempre stato il risultato in gara. Mi convincevo che arrivare 20° al Tour of the Alps fosse in qualche modo rilevante. Ora invece capisco che ho un impatto maggiore sul ciclismo dedicandomi con la stessa quantità di energia ad altre cose. Non ho inventato nessuna delle attività che pratico. L'ultracycling esisteva già, così come il gravel ma credo che mettersi in azione come professionista nel pieno della propria carriera, come ho fatto io, abbia portato molta attenzione a queste discipline. Ha senz’altro attirato anche l'attenzione dei media. 

Inoltre ho avuto il sostegno di Rapha, che mi ha affiancato nella produzione di molti contenuti foto e video, è stato decisivo. In realtà non è che io avessi una visione precisa di quello che volevo fare, molte cose si sono allineate nel modo giusto. Per me, quando ho iniziato, l'unica regola era rimanere autentico. Quando ho iniziato a pensare a un calendario alternativo volevo solo prendere parte a eventi che m’ispirassero davvero. Non volevo trovarmi in una situazione come quella delle corse su strada, dove dovevo presentarmi a una gara perché la squadra mi voleva lì.

Credo che la pandemia mi abbia dato la libertà di essere davvero onesto sulle mie motivazioni. Dato che non c'erano obblighi o programmi da rispettare ho potuto farlo, in un certo senso è stato come ripartire da zero. 

Ha mai sognato di indossare la maglia gialla da bambino?

Sì, ma era un po' come diventare grande e voler fare l'astronauta. Tutti i bambini vogliono fare l'astronauta, ma poi crescendo ti rendi conto di tutte le tappe che devi affrontare e delle cose che dovrebbero succedere, e capisci che non puoi farlo davvero. 

La Maglia Gialla è stata un’ispirazione ma quasi subito, appena dopo essere diventato professionista, mi sono reso conto che l’obiettivo Maglia Gialla non era realistico. Anche se avessi avuto la capacità fisica di correre da leader in un grande giro, non avevo la capacità mentale. Guardando dove sono ora, penso che la versione di me stesso di 17 anni fa sarebbe delusa. La nuova versione di me stesso invece, è abbastanza soddisfatta. Il punto è che il ciclismo mi ha cambiato, facendomi cambiare il modo di pensare al ciclismo.

Non sto dicendo che tutti quelli che vogliono vincere il Tour de France devono essere degli stronzi egoisti, sto solo dicendo che per arrivare a quel punto, diventare stronzo era quello che avrei dovuto fare. Sarei rimasto per mesi lontano da casa mia e dalla mia famiglia. Avrei speso tutto il tempo ad allenarmi. Andare in bici sarebbe diventato tutto. Ogni cosa al di fuori del ciclismo, andava eliminato. 

L'Alt Tour è forse la tua avventura più conosciuta ma mi ha incuriosito molto la tua iniziativa di quest’anno di pedalare fino al confine ucraino e consegnare biciclette ai ciclisti ucraini in Polonia che cercano di proseguire la loro carriera nonostante la guerra.

Tutti con questa guerra si sono chiesti come potevano dare una mano. Le mie capacità sono molto limitate, la mia abilità è soltanto quella di pedalare a lungo e andare lontano, però facendolo posso coinvolgere la comunità ciclistica. Andando in bici fino al confine potevo capire e conoscere ed anche mostrare alle persone che la guerra è più vicina a noi di quanto pensiamo. Ero a una gara con il mio compagno di squadra Mark Padun, che viene dall'Ucraina e com’era ovvio che fosse, lui era molto colpito dalla guerra. Finita la nostra gara sono tornato a casa e anch’io mi sentivo giù, facevo davvero fatica a restare motivato. Dovevo prepararmi per un'altra gara ma mi sembrava una cosa banale, senza senso. Così ho guardato su Google Maps e ho pensato: "Oh, posso farla in una tappa sola. Sarà la corsa più lunga che io abbia mai fatto, ma posso riuscirci". Da Monaco di Baviera erano 1.000 chilometri e sapevo che sarebbe stato abbastanza interessante da seguire per gli appassionati di ciclismo. Anche se non avessero avuto interesse per i temi legati alla guerra, sarebbero rimasti coinvolti. È stato molto difficile perché la guerra era iniziata solo da due settimane, era la brutta stagione e faceva ancora freddo, ma è stato fantastico. La gente ha iniziato a venire fuori dalle case, in strada, sempre di più man mano che ci avvicinavamo al confine. Alla fine sono stati raccolti duecentomila dollari da dare in beneficenza. 

In quel periodo, poco dopo scoppiata la guerra, la Federazione di ciclismo polacca aveva radunato i giovani ciclisti ucraini e con un pullman gli aveva dato la possibilità di andare via da lì. Ho trascorso una giornata con loro dopo il mio viaggio. È stata un'esperienza difficile perché, in realtà, cosa vuoi dire? "Mi dispiace che ci sia una guerra nel vostro Paese"? Loro non avevano nemmeno le biciclette ma sono riusciti a trovarne alcune e siamo riusciti a fare un giro di 45 minuti. E non appena siamo saliti sulle bici, è stato fantastico! Con la mia squadra ho iniziato a pensare, cosa potevamo fare? Rapha ci ha dato dell'abbigliamento, Fizik delle scarpe, Cannondale delle biciclette e alla fine della stagione sono tornato con Mark Padun per consegnare l'attrezzatura a questi ragazzi, che non sono ancora rientrati in Ucraina e non hanno ancora visto le loro famiglie, ma almeno hanno delle biciclette su cui pedalare. Hanno qualcosa da considerare "loro". Quando li avevo incontrati tutto quello che possedevano stava dentro a un borsone, ed ero rimasto colpito. È stato bello consegnare qualcosa che non è soltanto in prestito e che non devono restituire, ma che è loro. Possedere qualcosa è un modo di ricominciare.

Hai detto di aver partecipato al primo Campionato del Mondo gravel in Italia, quest'anno. Si è discusso a lungo se le gare su sterrato dovessero o meno diventare un evento UCI. Tu cosa pensi? Quale è il futuro del gravel?

Direi che ero scettico sul Campionato del Mondo. Non conosco bene le intenzioni dell'UCI. Molti organizzatori di eventi in tutto il mondo hanno essenzialmente creato questa nuova disciplina e l'impressione era che l'UCI arrivasse e dicesse: “Ok, ora ce ne occupiamo noi”.

L’evento invece mi ha sorpreso molto. C'era una bella atmosfera e l'organizzazione era davvero eccellente. Per la maggior parte si è trattato di un percorso molto interessante e divertente, diverso dal tipo di percorsi che ci sono negli Stati Uniti ma anche le corse su strada in Europa sono molto diverse da quelle degli Stati Uniti o delle altre parti del mondo. Il terreno era molto più vario, non si trattava solo di grandi strade sterrate. Ovviamente c'erano molti corridori che gareggiavano per vincere la maglia, ma alla fine ci siamo seduti tutti insieme a bere una birra. È stato fantastico. Spero che un maggior numero di corridori su strada facciano qualche esperienza nel gravel. Non credo ci sia nulla di male se un organizzatore o UCI mettono in piedi un circuito in giro per il mondo.  In fin dei conti non tutti ogni anno possono volare a Emporia, in Kansas, per la Unbound. 

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